Paese di Seo
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Usanze



matrimonio benedizione suocera

Usi nuziali.
Così descrive Ferruccio Quintavalle, sulla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie d'Italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori", la cerimonia nuziale che si era tenuta nel paese di Seo:
il corteo nuziale s'avviava verso la chiesa.
Veniva prima la sposa con un bianco velo che le scendeva dalla testa sulle semplici vesti, accompagnata dal compare de l'anel, un amico dello sposo, che faceva poi da testimone, e dalla brùmola, un'amica sua.
Seguiva , in mancanza del padre dello sposo, il procuratore (tutore dei minori orfani), parenti e amici e poi lo sposo col padre della sposa e altri invitati.
Compiuto nella chiesa il rito religioso, il corteo si dirige alla casa della sposa, fra spari di pistole, fucili e mortaretti, fermandosi di tratto in tratto dinanzi alle case dei parenti e amici che vi avevano imbandito una tavola con dolci e vini fini; la comitiva assaggiava qualche cosa e lasciava in compenso un pugno di confetti e crostini (specie di pasticcini dolci di farina, uova e burro), che venivano anche distribuiti agli invitati e ai ragazzi, che dal mattino facevano la ronda intorno alla casa gridando: «Viva i sposi che se marida».
E, guai se ai ragazzi i crostini non sono elargiti in misura abbondante: allora non più evviva, ma una gazzarra di grida e d'invettive.
Sulla porta della casa era la madre della sposa, che accolse il genero novello affettuosamente, baciandolo come un figli; poi sposi e invitati sedettero alla mensa, preparata in un largo corridoio, nell'ordine, a un dipresso, con cui erano nel corteo.
Terminato lietamente il pranzo, fra grandi evviva, i commensali, si recavano nuovamente in chiesa, e poi, per un delicato sentimento, al cimitero a pregare sulle tombe delle due famiglie, quasi a indicare che la nuova parentela si stringeva non solo fra i vivi, ma anche con i cari defunti: uso questo che non è mai trascurato.
Nel ritorno dal cimitero qualche volta, la sposa viene galantemente rapita da persone amiche e lo sposo deve riscattarla con una manciata di confetti.
Alla casa dello sposo attendeva sulla porta la madre con un vaso d'acqua santa in mano, nel quale immerge le dita, facendosi poi il segno della croce: abbracciata e baciata la nuora la condusse nella camera nuziale, che asperse con l'acqua santa, dopo aver tolto il velo dal capo della sposa: allora vi entrarono gl'invitati per vedere, massime donne , più curiose, i doni, e il mobilio.
Ma non c'era gran che da ammirare, che gli sposi erano poveri.
Alla sera, cena in casa dello sposo, con tutti gl'invitati della giornata e molta allegria.
Un tempo la sposa, dopo mangiata la prima portata, generalmente la minestra, si recava, accompagnata dalla brùmola, nella camera nunziale per vestirsi dimessamente e raggiunta la suocera nella cucina, la conduceva al proprio posto, presso lo sposo: ritornata poi in cucina, maniche rimboccate, veste succinta, risciacquava i piatti, quasi a indicare, fin dal primo giorno, che sarebbe una buona e seria massaia e solleverebbe la suocera dalle faccende più noiose e personali.
Ma oggi quest'uso così simpatico è assai raro; la sposa rimase tranquillamente a tavola.
Dopo la cena il ballo, e alle 23 finalmente, dopo la corvèe di questa giornata, gli sposi furono lasciati soli.
Quando la sposa viene da un altro paese c'è un uso singolarissimo.
Precede il piccolo corteo, a un centinaio di passi, il carro con la dote, cioè i mobili, coperti da grandi teli, di fra i quali sporge una rocca ben lavorata e intarsiata, con vetri minuti nel cappelletto: simbolo dell'attività domestica della nuova sposa: «domi mansit, lanam fecit
Assai raro in questi paese è il matrimonio dei vedovi, per timore dello smaccaluzzo, uso barbaro, che, con nomi diversi, dura in tutta Italia.
I giovani del paese, con corni da capraio, padelle, latte di petrolio e altri arnesi rumorosi, nelle sere delle tre pubblicazioni in chiesa e in quella del matrimonio fanno, sotto le finestre degli sposi, un gran chiasso indemoniato per una buona ora.
Se qualcuna delle vittime si risente, male per lui, che lo smaccaluzzo dura per una settimana e al fracasso si aggiungono anche pepate invettive.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


preghiera al cimitero

Usi funebri.
Dalla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie d'Italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori":
Le usanze funebri hanno alcuni caratteri che le distinguono da quelle delle altre parti d'Italia.
Attorno alla salma, composta dai parenti più stretti, si accendono uno o due lumicini a olio e nella stanza si pone un secchiello d'acqua santa.
Per tutto il tempo che la salma rimane insepolta, cioè per circa quaranta ore, la vegliano giorno e notte i parenti e i vicini e lo visitano di continuo amici e conoscenti per pregare e spruzzarla d'acqua santa.
Al momento della sepoltura la bara è coperta col pallio nero e viene trasportata da uomini se la persona defunta era coniugata; ma se era celibe o nubile il panno è bianco, qualunque ne sia l'età, e i portatori sono uomini celibi per gli uomini e ragazze, vestite di bianco, per le donne.
Per tre giorni dopo la morte la gente del paese sull'imbrunire si raccoglie per recitare la corona e altre preghiere di suffragio, e nella terza sera i familiari donano a ciascuno dei presenti uno o due pani: e, se la famiglia è benestante, dopo il funerale si distribuisce a ciascuno una misura di sale.
In tempi assai lontani c'era anche l'uso pagano di dare a quanti partecipavano al funerale un pranzo, come appare da un testamento del 1486 di Bona Pellegrino da Stenico, che disponeva fosse dato «unom pastum secondum consuetudinem regionis»; ma a ragione d'uomo non si ricordano esempi di quest'uso.
Un tempo la prima badilata di terra la gettava nella fossa il parroco, ma ora quest'uso è limitato a poche parrocchie.
Per nove giorni dopo il funerale le parenti del defunto e qualche vicina vanno, nel pomeriggio, alla chiesa e al cimitero, con un cero in mano e il capo velato da una specie di zendado come usano in chiesa, a recitare il rosario e altre preghiere di suffragio.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


Usi battesimali.
Dalla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie d'Italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori":
Semplice e intimo è il battesimo dei neonati, al quale non intervengono che i parenti più stretti, il padrino e la mammana o levatrice.
Il padrino suole fare qualche regalo: se è denaro, lo pone tra le fasce subito dopo il rito, nella chiesa stessa.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


processione stella

Usi natalizi.
Dalla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie D'italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori":
Nella vigilia di Natale compagnie composte di molti ragazzi, e talora anche di giovanotti, per raccogliere farina, mortadella, formaggio, frutta, vino e anche denaro per una cena, vanno alle case delle principali famiglie del paese con il Presepio, e, nelle vigilie di capodanno e dell'Epifania con la stella (specie di lampioncino alla veneziana, illuminato di dentro e girante su un perno) cantando «Puer natus in Bethleem - mundi gaudia Jerusalem: - Lactamini in Domino - In novo anno» e altre canzoni in volgare, veramente curiose, che variano da paese a paese e per il canto e per le parole.
Tre ragazzi rappresentano i tre Re Magi e cantano una canzoncina che incomincia così: «Noi siamo gli tre Re - Venuti dall'Oriente,ecc.»
Va invece scomparendo l'uso assai gentile che i ragazzi del paese vadano, al capodanno e all'Epifania, per famiglie benestanti ad augurare il buon anno e il buon dì: «Bon dì e bon an - e a noi la bona man» e, per la epifania «Bon dì - le benegatte a mi»; e la buona man e le benegatte, con cui sono renumerati, consistono in noci, frutta, pane.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


Usi pasquali.
Dalla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie d'Italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori":
Le feste pasquali sono celebrate press'a poco come nelle altre parti d'Italia, ma vi sono anche usanze o affatto particolari o comuni a pochissimi altri luoghi fuori del trentino.
Il sabato quando si slegano le campane, tutti come è costume, credo, in tutta Italia, corrono a bagnarsi gli occhi per preservarli dalle malattie.
Ma vi è anche un altro uso assai strano: mentre le campane suonano, molti con grande accanimento scagliano sassi in ogni direzione per le strade e negli orti perchè ne stiano lontani o siano innocui i serpenti: altri invece legano vinchi attorno agli alberi da frutta per rendere più sicura e più copiosa la produzione.
Nel giorno di Pasqua i ragazzi girano per le case dei benestanti a raccogliere ova, che poi colorate, cuocendole cuocendole con involucri di cipolle, petali di anemoni selvatico o altro, servono nelle due feste di pasqua per un gioco che, nel mantovano dove è pure in uso, chiamano scozzet.
Si formano capanelli di ragazzi che provano la durezza delle ova picchiandole fra loro, una sopra l'altra: le ova che si rompono restano a chi le ha rotte.
Ma si gioca anche in altro modo: un ovo è piantato ritto nel suolo e da una certa distanza vi si lancia contro una moneta da due o da quattro soldi: se l'ovo è colpito rimane al tiratore, altrimenti la moneta rimane al possessore dell'ovo.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


Usi carnevaleschi.
Dalla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie d'Italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori":
Tutte le sere del mese prima delle ceneri, gruppi di maschere vanno in giro per le case a rappresentare qualche scena improvvisa, generalmente satirica e allusiva ad avvenimenti locali d'annata.
L'ultima sera di carnevale i ragazzi al suono di bronze (campanelli), latte di petrolio, corni di becco da capraio, accendono un falò su un'altura e fra grida e schiamazzi abbruciano il Carnevale, rappresentato per lo più da un fantoccio.
Qua e là si conservano ancora, nel Carnevale, le sbigolade, cioè la distribuzione di bìgoli (spaghetti) o gnocchi o altre qualità di pasta a ragazzi e poveri del paese.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


benedizione capre

Benedizione del bestiame.
Dalla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie d'Italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori":
Usanze caratteristiche che ricordano in qualche parte le lustrationes latine del bestiame, accompagnano la malgazione: e, o pascolo estivo in alta montagna.
In generale le malghe, o cascine, appartengono ai Comuni, come le grandi estensioni dei pascoli alpini, e per lo più i Comuni le affittano con i pascolo ai proprietari di bestiame riuniti in società, o anche ai singoli privati, o malghesi, che si procurano per tempo il bestiame per caricare la malga e il personale occorrente.
Fra il 20 e il 25 giugno il bestiame viene condotto alla malga.
Nel giorno fissato per la partenza si raccolgono insieme tutte le bestie e il parroco le benedice, poi tutti, propietari e pastori, pregano per l'incolumità del bestiame e per i loro cari defunti.
Ogni proprietario accompagna il proprio bestiame alla malga e quindi ritorna al paese.
Lo stesso rito ma senza la benedizione del parroco, si compie alla malga, prima della discesa, circa la metà di settembre.
Il giorno dell'assunzione di M.V. (15 agosto), festa dei pastori e dei malghesi, i proprietari mandano loro uova, farina bianca e formaggio vecchio (burro ce n'è su in abbondanza) perchè facciano i gnocchi, e inoltre vino, frutta.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


Il filò

Il filò.
Dalla rivista mensile del T.C.I. - Le Vie d'Italia, del 03 marzo 1928, con il titolo di "usi e costumi tradizionali delle Giudicarie Esteriori":
Col filò ci trasportiamo dalla grande estate ai rigidi inverni di queste valli.
E' un uso comune in tutte le nostre campagne passare le lunghe serate d'inverno nel tepore delle stalle, ma il filò nelle Giudicarie è più vario e divertente che in altri luoghi.
Le donne filano la lana o canapa per farne abiti e biancheria, o rattoppano vecchie vesti, gli uomini fanno qualche lavoro leggero, come cestelli e canestri di vimini, zoccoli, rastrelli e altri arnesi rurali o impagliano sedie, ma buona parte del tempo si passa nel gioco delle carte, della tombola, dell'oca o della tria (una specie di gioco del mulino) o anche in giochi, diciamo così, di società.
Non di rado è invitato il cantastorie (ce n'è parecchi in ogni paese), che, senz'altro compenso che qualche bicchiere di vino, narra le sue canzoni, ossia leggende e fiabe, sui temi più svariati.
Autore dell'articolo Ferruccio Quintavalle, anno 1928


Vecchie canzoni


La canzone del paese di Seo.

La pù bela, la pù granda dele val del Trentin lè questa chi,
... del Trentin lè questa chi,
e quà sù a boca piena tuti i dis che "Sè" l'è en paradis,
... che "Sè" lè en paradìs.

Quanche el vèdo lì ben postà, destendù su l'ert sul pian, g'hò da dir col còr contènt, smacar le man, che "Sè" el pàr nà cità,
... che "Sè" el pàr nà cità.

La campagna come n'òrt, la dà fruti d'e ogni sòrt,
... la dà fruti d'e ogni sort,
pomi, peri brugne e nespoi ogni stagion, fighi, perseghi e vin bòn.

Dònche stente pur seguri a quel che i dis, che no i gà segur el tòrt,
che "Sè" lè senza dubi el paradis, 'n dò che Adam lè nàt e mòrt.

Testo trascritto da Luigia P.
Archivio Giuseppe e Ada B.


Filastrocche


Filastrocca del Trato Marzo

Nelle giornate dal primo al tre di marzo, vigeva fino agli anni cinquanta del secolo appena trascorso, l'usanza di celebrare il "Trato Marzo".
Ogni paese della zona aveva un luogo apposito, geograficamente individuato col toponimo di "Trato Marzo", per celebrare la ricorrenza.
A Seo la manifestazione si teneva sul terrazzo naturale scavato nella parete rocciosa che sovrasta e domina il paese, nei pressi della località detta "Le Scalette Dei Cogoi".
marzo trato Su tale pulpito, al tempo ben visibile dal centro del paese, lo scroscio e il bagliore delle fiamme di un grosso falò, scandivano e esaltavano in tarda serata, l'intonazione a squarciagola da parte di alcuni giovinotti, della filastrocca del Trato Marzo.
Questi ultimi, senza remore ne remissioni, proclamavano burlesca-mente, fidanzamenti che talvolta sconfinavano nel grottesco, tra nubili, celibi, vedovi e vedove.
Radunata nella zona dell'odierna piazza centrale, la popolazione assisteva ai proclami dei ragazzi.
La manifestazione da un lato destava curiosità, specialmente nella gioventù da maritare, ansiosa di conoscere chi gli veniva assegnato, talora provocava risentimenti.
Le fanciulle o signore del paese potevano venire unite in fidanzamento con persone molto anziane, con dei bambini e a volte persino con oggetti tipici del mondo rurale, come poteva essere per esempio il timone del carro, nel qual caso la sventurata, probabilmente poco simpatica agli oratori, assumeva la vece della bestia da traino.
Alcuni ricordano le punizioni inflitte dalle maestre e maestri della locale scuola in seguito alle bravate della ricorrenza, o la predica domenicale del reverendo, proclamato fidanzato della domestica.
L'ultimo giorno si tendeva ad abbandonare il filone burlesco per svelare alla popolazione le reali coppie di nuovi fidanzati.

Prima sera; 1 marzo:

Tràto marzo, marzo tràto,
féverèr lè già pasà
e già spunta la prima viola
per maridar stà bèla fiòla.
Chi èla, chi no èla ?
l'è la "Gigiota" che l'è da maridar,
chi gavente mai da dàrghe?
el "Toni Dugo" che l'è en bel om.
El Ben dat ?
is!, si!, si! ...
E se anca el fa la ciuca non l'è miga mal,
ma gnanca masa bèn.
Ma se anca el fa la ciuca no l'è miga mal.

Seconda e terza sera; 1-2 marzo:

Tràto marzo in questa sera
per maridar la pù bèla.
Chi èla, chi no èla ?
la "Mariota" del "Pero" che l'è la pù bèla.
Che gioventù ghè mai da dàrghe?
el sior "Gaetano" che l'è da maridar.
El Ben dat ?
si!, si!, si! ...
E se anca el fa la ciuca non l'è miga mal,
ma gnanca masa bèn.

Testo trascritto da Luigi B.

Proverbi


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